Swatch

Una delle tante magie della musica è la capacità di svegliare, all’improvviso, dei ricordi che si credevano dimenticati, ma che invece non fanno che aspettare. Sono in letargo, in un angolo del cervello, in attesa di essere richiamati. Alla fine dei conti, è quello il tema della canzone che oggi ha premuto il grilletto del ricordo: Swatch, dei Stadio.

Mi sono ritrovata, senza volerlo, in una sera autunnale, facendo la strada tra Villa Mirafiori e la metro di Piazza Bologna. Abbracciata, anch’io, a qualcuno in una strada bagnata. Era uno di quei momenti nei quali il tempo sembra essersi fermato, uno di quei momenti di gioia inaspettata, non programmata, effimera, molto fragile, ma perfetta.

Il ricordo è tornato con la musica, ma non in dettaglio, come colpi di pennello in un quadro impressionista: l’asfalto bagnato, la pioggia leggera, un ombrello che si apre e si chiude, tante risate, tanti baci. Dell’abbracciato non ricordo il nome, ne come lo conobbi: se fu all’università, oppure in una festa, o era amico di qualcuno. Di lui non ho conservato nessun altro ricordo. Ne delusione o disincanto, come successe con altri in quel pazzarello autunno-inverno di Erasmus. Ma, nonostante il vago ricordo della sua persona—capelli folti e scuri, occhi neri, abbastanza alto come per dover sollevare un pò il mento per guardarlo— lui mi lasciò una passeggiata bellissima, piena di baci caldi e appassionati. Uno di quei momenti di, per dirla come nella canzone dei Stadio, “incoscienza orgogliosa di quell’età”.

Quindi, più di vent’anni dopo, anzi, venticinque, queste righe sono un ringraziamento a colui che passò per la mia vita, come io per la sua, fugacemente. Per quei pochi momenti vissuti insieme che hanno lasciato un ricordo di perfetta gioventù.

Che devi andare
Ma lascia che cammini
L’età deve passare
Ma lascia che sconfini
Poi tiro sù le spalle
E ghigno sul Natale
E gioco col bene e il male che so in ogni età