White bird down

In un’intervista Penélope Cruz parlava dei pericolo dei social media, e insieme ad altri ospiti si commentava tossicità di Twitter. Fino a nemmeno una settimana fa non sarei stata così drastica nella definizione. Sì, ho sempre riconosciuto la sua parte più brutta e credevo di essere in grado, non dico di arginarla, ma almeno disinnescarla. Finché non è arrivata quest’ultima maledetta guerra alle nostre porte. L’avidità di saper di più, complice col meccanismo compulsivo dello scroll con le dita (non ricordo dove ho letto che anche quel gesto che ci sembra stupido è stato studiato con dettaglio per incrementare la addizione, come se si trattasse di una qualsiasi droga), mi faceva aumentare il tempo giornaliero di esposizione, oppure controllare l’app in orari inverosimili.

Alle immagini e i racconti di quello che sta succedendo si unirono presto i vari se, ma, però, quel solito gne gne gne che mi può risultare simpatico nei dibattiti innocenti del tipo “la carbonara, con cipolla?” (anche se sono sicura che non pochi drammi si sono svolti in quel senso) ma che quando si tratta di una questione di tale portata, che ha e ne avrà delle conseguenze pesanti, il mix di tragedia vera nei tuit, con cattiveria, superficialità, la mancanza più assoluta di empatia o intelligenza nelle risposte, mi si fece, all’improvviso, impossibile da sopportare. Così, ormai quasi una settimana fa, mentre allo stesso tempo piangevo e mi incazzavo, cancellai l’app dal cellulare e tablet e non ci sono entrata da allora. Non è arrivato ancora il momento del logout definitivo e prima o poi ci tornerò a mettere piede virtuale, ma non senza adottare le misure basiche di profilassi: schermata “home” disattivata (senz’ombra di dubbio la parte più tossica della rete più tossica), non leggere i commenti dei tuit più virali, evitare la pagina “in tendenza” e non entrare in nessuna discussione. Il classico “non sono d’accordo con te” e relativa spiegazione sono quasi completamente inutili; nel caso ci sia un certo legame o simpatia con chi scrive, ci sono altri mezzi, dai MP alle mail per spiegare le proprie idee, e nel caso di non conoscerlo, con un singolo tuit probabilmente la spiegazione finisca in una mutua irritazione. Quindi quid prodest? (per i raffinati – il concetto si esprime lo stesso con sti cazzi).

In questi giorni il tempo dedicato allo scroll compulsivo è stato dedicato alla lettura di testate online (ci sono scappati anche un paio di abbonamenti) e alla riflessione in solitudine. Investo qualche euro al mese (finché posso permettermeli) per informarmi altrove, ma ne ho guadagnato in serenità. Quando rientrerò, farò tutto il possibile per non alimentare il mostro, finché lo sti cazzi sarà di tali dimensioni da portarmi al log out definitivo.

Mai biasimare le sorelle Schlegel

Philippa Coulthard e Hayley Atwell nell’ultima versione TV di Casa Howard

La prima volta che vidi Howard’s End, e anche quando, anni dopo, lesi il romanzo di E. M. Forster, trovavo difficoltà a capire le sorelle Schlegel. Per togliere quella spada di Damocle perennemente sopra la loro testa, lo scadere del contratto di affitto della casa a Londra, bastava poco, cominciare a cercare nei annunci immobiliari. E invece lasciavano passare il tempo, prese dalle sue imprese senza senso, come dover salvare la vita del signor Leonard Bast rovinandola. Nei tempi di studentessa Erasmus a Villa Mirafiori, mi ritrovai nel romanzo di Theodore Dresler, “Sister Carrie”, con un altro procrastinatore compulsivo, George H. Hurstwood, traslocando ogni volta ad un appartamento più piccolo mentre vedeva i suoi risparmi rimpicciolire. Per non parlare dei patetici Tony Patch e Gloria Gilbert di F.S. Fitzgerald, i “Belli e dannati” che io definisco belli e viziati, sempre in attesa di un’eredità mentre, tra festa e festa, anche loro traslocano ogni volta in una casa più piccola senza fare niente per evitarlo. Alle Schlegel e ai Patch le cose finiscono bene, le prime trovano i Wilcox, i secondi l’agognata eredità, mentre che G.H. Hurstwood viene mollato da Carrie, diventa un barbone e alla fine si suicida.

Quando leggevo quei libri mi dicevo sempre ma come si fa, e invece mi ritrovo come loro; sapendo che dovrei fare qualcosa per andare avanti, ma senza farla, in quest’anno e mezzo pandemico. L’unica cosa alla quale mi dedico attivamente con un certo successo —la visione compulsiva di serie tv mi sembra un’attività piuttosto passiva— sono le camminate. Basta poco: prima un passo, poi altro, e via. Il corpo si abitua, ormai dai cinque chilometri a percorso sono passata ai dieci (in un po’ meno di due ore, mica devo battere un record olimpionico), le calorie bruciate aumentano, e l’app del mio telefono si congratula vivamente con me. Non che sia diventata una fica mega spaziale, con la mia tuta di passeggio sembro più una Eva Kant in sovrappeso che una dea del fitness, ma l’equazione è semplice: cammino “x”, brucio “y”, il mio cuore ringrazia lo sforzo aerobico.

Ma, per quanto riguarda tutto il resto, rimango paralizzata. C’è ancora tempo, mi dico, mentre passano mesi senza maturare un soldo di pensione. Tornerò nel vecchio ufficio a novembre, probabilmente per poco perché l’azienda è al capolinea, cosa che sapevo da anni. Ma nemmeno do uno sguardo agli annunci per paura di cosa troverò —anzi, cosa non troverò— per essere più precisi; ne ho approfittato questi mesi vuoti per finire il mio secondo romanzo, ne per scrivere una decina di racconti (soltanto uno, presa da una delle mie rare e brevi botte di ispirazione), ne tanto meno a battere il mio record di libri letti. Leggo, sì, ma a fatica. Ascolto parecchi audiolibri, sì, ma sono lo sfondo alle mie camminate e quindi possono passare alla categoria di “attività pasive”.

Per farla breve, in questi mesi ho imparato una lezione; mai biasimare le sorelle Schlegel.

Ulisse

Sangue. Ovunque. Le dita, rosse e unte, sono incollate all’elsa della spada; se volessi muoverle non credo ci riuscirei. Troppo sangue. Non mio, almeno non tutto. Avverto uno spiacevole prurito nella coscia, vediamo. Sì, quel piccolo ruscello rosso è mio. Sarà stato Agelao, era il più coraggioso. Ho quasi quarantatré anni, e ne ho disfatti tanti. Nemmeno venti guerrieri messi insieme hanno spedito tante anime al traghettatore. L’Ade attende il mio arrivo, per offrirmi un incubo eterno, senza speranza. Sì, le mie mani ne hanno disfatti così tanti, ma ancora di più la mia scaltrezza. Non si sentono più schiamazzi. Telemaco ha eseguito le mie istruzioni; gli ho chiesto di lasciarmi da solo un momento. Poi, la mia anziana nutrice annunzierà che il bagno è pronto. Penelope non può vedermi così. Penelope. Sono stato con altre donne, cercando di capire, con disperazione, se i loro abbracci erano dolci quanto i suoi. Non lo erano. Perché mi hai scelto, Penelope? Ti ho portato tanto dolore, non riuscirò a farti felice perché non sarò mai davvero con te, nemmeno quando dorma questa notte al tuo fianco. E’ questa la mia maledizione, la nostra: aspettarmi e rimpiangerti. Me ne andrò via di nuovo, e tu mi aspetterai ancora. So che lo farò, che, passato un tempo, tra un anno o forse dieci, salirò sul colle più alto di questa nostra piccola isola e guarderò il mare, chiedendomi cosa mi aspetta dall’altra parte. Me ne andrò e non tornerò mai più. E ti ricorderò, come ieri notte, quando la mia dea mi aveva trasformato in un vecchio mendicante e tu mi parlasti. “Dimmi cos’è stato di mio marito, straniero”. Tuo marito non dovrebbe essere mai nato.

Miguel




 

Mi mejor maestro lo tuve en la Universidad, cuando cambié carrera trocando lo que “tenía más salidas” por lo que “más me gustaba”. Era, además, el primer curso de los nuevos planes de estudios; finalmente, los horarios y las clases dejaban de ser algo rígido y los estudiantes construíamos nuestro currículum intentando cuadrar horas y el número de créditos necesarios, por lo que, inevitablemente, algunas asignaturas cumplían exclusivamente la función de “relleno”. La mayoría llegamos así a su clase: cuatro créditos probablemente fáciles de aprobar, sin importarnos mucho o nada la poesía en lengua inglesa. Miguel tuvo la intuición, la inteligencia, de no empezar por orden cronológico: Chaucer y su Beowulf lo vi años después en inglés antiguo, odiada asignatura troncal (horas pesadas, interminables, con un docente situado en las antípodas didácticas del protagonista de esta historia). Así pues, el primer autor que tratamos fue contemporáneo, de aquellos que escriben poesías sin rimas sobre temas, en teoría, banales. Como la del tipo que, por apresurarse a regresar a casa en medio de una fuerte nevada, atajó por un campo, atascando el coche en la nieve; lo encontraron muchas horas después, con la palabra VOLVO impresa al revés en la frente.

De ahí se pasó al Modernismo, y paseé con él, cuando el atardecer se despliega sobre el cielo como un paciente anestesiado en la mesa operatoria. Probablemente durante el curso de los estudios me habría encontrado con T.S. Eliot, pero por fortuna fue Miguel quien me lo presentó. Y con él, a Prufrock, o Mungojerrie y Rumpleteazer antes de haber escuchado el musical Cats. Después llegaron los románticos, y, a pesar de la fascinación que ejerce el personaje de Byron —sobretodo si se asocia a la película “Remando al viento” y el verano gélido en el lago suizo, cuando Mary parió su criatura— me quedé prendada de Browning, el enamorado, y sus monólogos dramáticos. Como el del obispo en su lecho de muerte, que dispone su tumba en la iglesia de Santa Práxedes, con el epitafio en latín refinado, no esos versos vulgares que usó Gandolfo. Sobrinos, hijos míos… ¡Dios! no sé— O la historia de la difunta duquesa, retratada en aquella pared, como si viviese aún. Dos años después durante mi curso Erasmus, el profesor que volvió a hablarme sobre la duquesa lo hizo de una manera tan torpe, que me faltó poco para gritar al sacrilegio en el nombre, no solo de Browning, sino sobre todo de Miguel.

La asignatura a la que me apunté por rellenar créditos fue la primera en darme unas notas que sabía que existían pero no las había visto nunca, como ahora los billetes de quinientos euros. Las matrículas de honor dejaron de ser cosa de empollones o quimeras y, por suerte, el segundo año el plan de estudios ofrecía “Poesía en Lengua Inglesa II”, con el mismo profesor. Fue inevitable, durante esos dos cursos, que buena parte de las alumnas nos enamorásemos (muy platónicamente) de él, y que circulasen, además, noticias vagas sobre su vida privada; decían que su mujer era italiana, detalle que aumentaba no poco su aura misteriosa. Alguna vez me he preguntado qué ha sido de su vida, pero he resistido a la tentación de preguntar al Gran Hermano Informático. Está demostrado científicamente que nuestros recuerdos son, en la mayoría, falsos. Sería difícil conjugar la imagen que pudiese darme el ordenador con la que se ha quedado imprimida en mi memoria: las mangas de la chaqueta oscura, demasiado grande, manchadas con polvo de tiza, mientras que, con la mirada perdida al fondo de la clase, se deja llevar explicando con la pasión de un fan los versos de Coleridge. Miguel me ha regalado una llave, imprescindible, que uso cuando no puedo más, para entrar en otro mundo, en el que me pierdo entre palabras, hasta que voces humanas nos despierten, y nos ahoguemos.

 

 

Obras citadas:

“Snow Joke” – Simon Armitage
“The Love Song of J. Alfred Prufrock” – T.S.Eliot
“The old Possum Book of Practical Cats” – T.S.Eliot
“My last Duchess” – Robert Browning
“The Bishop Orders His Tomb at Saint Praxedes’ Tomb” – Robert Browning

El secreto de Rosanegra – reseña

Una de las alquimias de la literatura es la capacidad de hacernos sentir ciertos personajes de ficción cercanos como un viejo amigo. Así me sucede con Aníbal Rosanegra, protagonista de una serie de novelas del escritor salmantino Jairo Junciel. Y eso a pesar de que, aunque hemos recorrido con él media España y cruzado el Atlántico hasta llegar a Cartagena de Indias, seguimos sin haber descubierto el auténtico secreto de Rosanegra, su aspecto. Creo que no es una casualidad que en las dos cubiertas de estos libros Aníbal se presente de espaldas.

No lo hemos visto, como a Edmundo Dantés mientras intentaba reconocerse delante del espejo de un barbero en Portoferraio, o minuciosamente descrito como Athos por D’Artagnan en su reencuentro, veinte años después. Aníbal pasa a nuestro lado arropado por un velo de misterio, apenas rasgado por un vago “aspecto de mílite” o el efecto que provoca en mujeres de la más variada condición. Así pues, nuestra imaginación va moldeando un Aníbal según nuestros gustos o lecturas.

Quizás para compensar esa zona de sombra, el autor no escatima palabras ni destreza para presentarnos a los demás personajes de la novela. Un fray Francisco que podría ser su homónimo en el Vaticano, o un teniente Gravina que es el vivo retrato de Kirk Douglas.

En esta segunda parte de las memorias de Aníbal Rosanegra, éste prosigue con el encargo que le encomendó al final de la anterior entrega el marqués de Villena: se embarcará en una misión secreta que lo llevará hasta Cartagena de Indias, donde se encontrará con Blas de Lezo. Lo hará con su inseparable compañero de vida y aventuras, el vasco Cucha, a bordo de la nave Audaz, gobernada por el capitán Carrión, quien surca los mares impulsado por un deseo de venganza comparable al del capitán Ahab de Melville. Mientras el uno busca a la ballena blanca atado al palo mayor del Pequod, el otro funde en la soledad insomne de su camarote las balas manchadas con la sangre de su hijo en Rande. Aníbal y Carrión están unidos por un vínculo invisible que acabará uniendo el destino de los dos hombres: el pirata holandés Kniven, responsable de las muertes de, respectivamente, su padre y su hijo.

A lo largo de más de cuatrocientas páginas, que como siempre nos parecerán pocas, sufriremos con Aníbal las penurias de una vida a bordo de una nave de la Armada. Las incomodidades, olores, el descanso imposible, la aglomeración, el hambre apenas calmada con ingredientes improbables, pues “cuando el hambre aprieta, no hay pan duro ni rata fea”, el infierno que se desencadena en las cubiertas cada vez que rugen los cañones, la metralla barriendo el puente llevándose todo lo encuentra por delante, el abordaje a una nave desconocida, el intentar escapar en la niebla de un enemigo certero e implacable, la desesperación de náufragos atrapados en la calma chicha.

La némesis de Aníbal en esta aventura será el teniente Gravina, la personificación de algo difícil de aceptar en estos tiempos de exquisita corrección política: un gran profesional no tiene por qué ser al mismo tiempo una bella persona. Sin embargo, a diferencia de cuanto sucedió con su anterior enemigo, Gargantúa, sus diferencias no se resolverán a última sangre en el puente de Toledo. Aníbal redimirá a Gravina, mal que le pese a este último.

Hay más personajes: desde espías holandeses a samurais convertidos en ronin, un marinero que es pasado por la quilla por haber asesinado a un oficial y sobrevive para contarlo, o un niño que se convertirá en el cordero del sacrificio, salvando a Aníbal en su momento más negro, cargando su conciencia con un peso del que nunca se podrá librar.

La novela está escrita con la habitual maestría técnica del autor. Durante la lectura nos emocionamos, reímos y lloramos, nos hallamos totalmente sumergidos en otra época, otro lenguaje, el de los bravos de la carda. Jairo Junciel se confirma como uno de los escritores de novela histórica de mayor talento de los últimos años. El día que llegue el merecido reconocimiento en ventas nosotros pocos, felices pocos lectores veteranos, pronunciaremos el habitual “os lo dije”. Ojalá que su próxima novela, finalista del premio Planeta y que promete ser algo completamente diferente, traiga a Jairo Junciel el reconocimiento que merece.

Swatch

Una delle tante magie della musica è la capacità di svegliare, all’improvviso, dei ricordi che si credevano dimenticati, ma che invece non fanno che aspettare. Sono in letargo, in un angolo del cervello, in attesa di essere richiamati. Alla fine dei conti, è quello il tema della canzone che oggi ha premuto il grilletto del ricordo: Swatch, dei Stadio.

Mi sono ritrovata, senza volerlo, in una sera autunnale, facendo la strada tra Villa Mirafiori e la metro di Piazza Bologna. Abbracciata, anch’io, a qualcuno in una strada bagnata. Era uno di quei momenti nei quali il tempo sembra essersi fermato, uno di quei momenti di gioia inaspettata, non programmata, effimera, molto fragile, ma perfetta.

Il ricordo è tornato con la musica, ma non in dettaglio, come colpi di pennello in un quadro impressionista: l’asfalto bagnato, la pioggia leggera, un ombrello che si apre e si chiude, tante risate, tanti baci. Dell’abbracciato non ricordo il nome, ne come lo conobbi: se fu all’università, oppure in una festa, o era amico di qualcuno. Di lui non ho conservato nessun altro ricordo. Ne delusione o disincanto, come successe con altri in quel pazzarello autunno-inverno di Erasmus. Ma, nonostante il vago ricordo della sua persona—capelli folti e scuri, occhi neri, abbastanza alto come per dover sollevare un pò il mento per guardarlo— lui mi lasciò una passeggiata bellissima, piena di baci caldi e appassionati. Uno di quei momenti di, per dirla come nella canzone dei Stadio, “incoscienza orgogliosa di quell’età”.

Quindi, più di vent’anni dopo, anzi, venticinque, queste righe sono un ringraziamento a colui che passò per la mia vita, come io per la sua, fugacemente. Per quei pochi momenti vissuti insieme che hanno lasciato un ricordo di perfetta gioventù.

Che devi andare
Ma lascia che cammini
L’età deve passare
Ma lascia che sconfini
Poi tiro sù le spalle
E ghigno sul Natale
E gioco col bene e il male che so in ogni età

Muerte en el hielo – reseña

 

Quienes habéis visto la serie de la HBO “The Terror”, podéis haceros una vaga idea de qué os váis a encontrar cundo leáis la novela de Álber Vázquez “Muerte en el hielo”, que narra lo sucedido a la nave San Telmo y a sus 644 hombres, tras encallar en las costas de lo que sería conocida como isla de Livingstone, en la Antártida, a principios de septiembre de 1819. Escribo “vaga” con razón; recordad el frío y las penalidades que sufrió la tripulación del Capitán Franklin en 1845, y multiplicadlo por la enésima potencia. ¿Hecho? Pues ahora multiplicad de nuevo por diez el resultado, y cuando leáis la novela de Álber Vázquez os daréis cuenta de que os habéis quedado cortos.

Los hombres del brigadier Rosendo Porlier no estaban intentando buscar un paso entre los hielos que comunicase dos continentes. Sólo tenían que doblar el cabo de Hornos, “nada, en cualquier caso, que no se hubiera hecho cientos y cientos, ¡miles!, de veces en los últimos siglos”, y llegar al Perú cuando, la fatalidad, para usar la palabra tan querida por Alexandre Dumas, se presentó a bordo del San Telmo en forma de un timón roto por la borrasca. La nave perdió el contacto con el resto de navíos de la formación y fue a la deriva, hasta que encalló. Los hombres que sobrevivieron al brutal impacto contra la costa se las tuvieron que ver con los coletazos del invierno austral vistiendo tan solo un ligero uniforme de entretiempo (aquellos que lo llevaban), sin más abrigo que una manta deshilachada y raída, calzando botas de cuero de suela fina y flexible, apta para subir y bajar a toda prisa los puentes de una nave de guerra, pero que los dejaba prácticamente descalzos en una playa de piedras agudas y cortantes.

Álber Vázquez narra con gran habilidad el padecimiento de aquellos hombres. No se trata sólo de un frío que entumece y entorpece los movimientos, hace perder la razón y convierte el color de la piel en azul (la tripulación del San Telmo mostraba la piel en tonos azulados que, eso sí, se perdían en diferentes grados de tonalidad en función de lo helado que estuviera el hombre), sino cómo, ante una situación extrema, el tenue barniz de la civilización se resquebraja. La lenta pero inexorable pérdida de la Humanidad ante circunstancias adversas  es un tema que ha sido tratado ya muchas veces por la literatura, como en “El corazón de las tinieblas” o “El señor de las moscas”. Cada hombre reacciona de manera diferente: honor, resignación, rebeldía, locura, angustia. Todo a través de un narrador conciso, directo, cercano (“morirse en un asco, sobre todo para el que se muere”), que realiza continuos guiños al lector. Es una novela cargada de dramatismo, con una crueldad inimaginable (además, sin la necesidad de sacarse de la manga un oso polar mutante), pues no hay peor bestia que el hombre cuando deja de serlo. Y, a pesar de todo, nos ofrece momentos de una belleza y un lirismo inimaginables en una historia de tales características, como en las 25 páginas del capítulo 16. Gracias a la falta de noticias sobre qué sucedió a aquellos hombres tras el naufragio, el autor da rienda suelta a su imaginación, construyendo un mosaico, verosímil y absurdo—como sólo la realidad puede llegar a ser—sobre lo que pudo suceder las horas sucesivas al naufragio.

“Muerte en el hielo” es una novela imprescindible, no sólo para los aficionados a la novela histórica, sino también para los amantes de la buena literatura. Reivindica un hecho que se borró de la Historia: que fueron los españoles los primeros en llegar a la Antártida, no la expedición del capitán británico William Smith el 15 de octubre de 1819.

“Que se sepa de nosotros y nuestra desdicha”.

Para terminar, la Terror y la San Telmo se diferencian en otro aspecto. Mientras que la Royal Canadian Geographical Society ha encontrado los restos del Terror (Vídeo) en España un proyecto privado para realizar una búsqueda de los restos del San Telmo se ha quedado sin financiación por parte del gobierno.

Mientras España se pone de acuerdo para hacer paces con su historia, Rosendo Porlier y sus hombres llevan esperando doscientos años en esa tierra inhóspita, formados en la playa de guijarros. Imagino al brigadier el día en el que, finalmente, un navío español se acercará a la costa de rocas negras, murmurando en voz tan baja que apenas puedan oírlo los tenientes Ostos y Marín, un “a buenas horas”, seguido de una orden, pronunciada en voz alta. “Caballeros, saluden la bandera”.

Conocido desconocido

Nighthawks – Edward Hopper

 

Fue por una de esas conversaciones de bar. Se encontró metiendo baza, o fue él quien lo hizo. Habían pasado varios meses y ya no lo tenía claro. Cuando pasa el tiempo se duda de los recuerdos; nunca se está seguro de qué sucedió exactamente en un momento determinado. Ante la duda, te aferras a una versión de los hechos y se da por buena, sin más. Por eso, a esas alturas creía que fue ella quien entró en su conversación, gracias a algo que en ese país pone de acuerdo a desconocidos en pocos instantes: la burocracia y todas aquellas normas y mecanismos que en la cabeza del legislador o el político de turno eran algo genial, pero que puestos en práctica convertían la vida de los sufridos ciudadanos un infierno.

Así pues, ella—hemos quedado en que fue ella quien empezó—hizo partícipe al desconocido de un par de trucos para intentar superar los continuos errores que proporcionaba la nueva herramienta burocrática a la hora de introducir un cierto tipo de datos en el sistema. Consciente, mientras lo hacía, de que se estaba poniendo colorada como un tomate. Pasó a ser algo habitual desde aquel entonces, cada vez que coincidían: la mutua consciencia de que se encontraban en una situación incómoda sin ningún motivo. Aquella mañana, ella salió la primera del bar tras haber pensado unas diez veces mientras pagaba el desayuno si tenía que saludarlo al salir, pero a juzgar por las miradas furtivas que él echaba en su dirección, parecía claro que no era la única que se encontraba en tal dilema. Nunca tuvo todas esas dudas con la joven madre y su bebé: se decían hola y adiós, se saludaban si coincidían en la acera o entrando y saliendo en el bar, a pesar de que nunca compartió con esa mujer ningún truco para engañar al pérfido programa informático: simplemente hizo algunas carantoñas a su hijita. Pero con él no sabía nunca qué hacer. Lo único que compartían era la certeza de que el otro—la otra—estaba igual de incómodo porque había quedado algo pendiente entre ellos. Quizás si aquella primera mañana ambos hubiesen tenido valor para despedirse con un hasta luego, buenos días, esa sensación de y ahora qué no se habría quedado colgando en el aire, como una amenaza, o una promesa.

Por más que analizase la situación con la lógica, no llegaba a conclusión alguna. De acuerdo, era alto y agradable a la vista, podría definirse un hombre atractivo; tenía un cierto aire a un actor americano, Kyle Chandler, el coronel Cathcart de “Catch 22”. Sin embargo, no salía muy bien parado tras una mirada más crítica. Llevaba la ropa un punto demasiado estrecha, calzaba zapatos francamente horribles y encima se ponía gel en el pelo, dejando algún que otro mechón de punta. Probablemente era bastante más joven que ella, pues tenía sólo algún que otro cabello blanco. Los retales de sus conversaciones en el bar no le habían dejado la sensación de que fuese un hombre demasiado inteligente; ni tan siquiera la voz, que para ella era un rasgo que bastaba para convertir un asno en un Adonis, era mínimamente memorable. No se lo imaginaba leyendo un libro ni aunque se lo hubiese encontrado con uno bajo el brazo. Y entonces ¿por qué pasó un mal rato cuando un día estaban los dos delante de la caja para pagar sus consumiciones? ¿Por qué no podía sentir la indiferencia de cuando se sentaba alguien a su lado en el metro?

Quizás porque sabía que el conocido desconocido se encontraba en su misma situación. Lo cual no dejaba de tener su maldita gracia, pues nunca la había visto maquillada, ni hace quince años o veinte kilos, cuando los silbidos de los obreros se activaban automáticamente cada vez que pasaba cerca de un edificio en construcción. Entonces sí que habría un motivo para mirarla de reojo, adoptar una pose de indiferencia muy poco espontánea; había veces que a ella le entraban ganas de recriminarle qué narices encontraba de interesante en su cara ojerosa a las siete y pico de la mañana.

No soportaba más el seguir con la sensación de tener algo pendiente con el desconocido cada vez que se cruzasen por la calle o en el bar. Había que aclarar las cosas lo antes posible: hacer de tripas corazón, mirarle a la cara y soltar a bocajarro un aclaremos las cosas. Con un epílogo variable entre una cara anonadada o acabar dándose el lote en el retrete, como se ve en las películas. Tras unas pocas frases de circunstancia con las que habrían constatado que era inútil negar la evidencia: se gustaban a pesar de todo. La ocasión llegó. Lo vio por la calle, lejos de oídos indiscretos. Aceleró el paso, yendo decidida hacia él, que no se había percatado de su presencia pues estaba escribiendo algo con el móvil. Cuando estuvo a punto de abrir la boca apareció en su mente una imagen, nítida y clara: unos pantalones bajados, el botón de su chaqueta a punto de salirse del ojal, unos horribles calcetines de hilo y un par de zapatos negros, bastante vulgares, pisando las baldosas de un baño.

Ella pasó de largo, fingiendo buscar algo en el bolso.

Pide, que te será dado

La queja más unánime sobre Twitter es que se ha convertido en el templo de la crispación, el mal rollo, los trolls y todo aquello que de negativo puede dar internet. Como todas las generalizaciones, son injustas. Trolls haberlos haylos, pero también hay gente capaz de hacerte pasar un buen rato, y que encima es generosa. El locutor Sergi Carles nos deleita con su buen humor en su cuenta @TodoJingles, nos enseña entresijos de su trabajo, comparte frikismos varios, y además tiene una segunda cuenta, @JinglesPoesia en la que recopila peticiones de locuciones. Tras escuchar en su voz el íncipit de una de mis novelas favoritas de los últimos años, “El guardés del tabaco”, me armé de valor y le pedí que leyese uno de mis textos, Un monólogo sobre Ulises .

Había pasado más de un año, y como yo no soy de quienes van exigiendo cosas gratis, ya ni me acordaba del asunto. Hasta que ayer me llegó un mensaje directo por Twitter con la gran noticia. Aquí está el video.

 

Conversaciones entre ausentes

Grafomanía – ejercicio en latín cursivo

Laura Mínguez ha escrito en Jot Down un bellísimo artículo sobre las cartas (quien quiera leerlo, que acoquine y pague la subscripción, que aún no está disponible gratis) que me ha hecho reflexionar sobre ellas. La abuela cebolleta cascarrabias que hay en mí ha levantado la voz, como siempre y cada vez con más frecuencia, refunfuñando sobre lo que se han perdido los milennials, la emoción de comunicar por carta de papel. Y si a las cartas iba unido un amor de juventud, miel sobre hojuelas. El cartero se volvía una figura mítica, el mensajero de los dioses, anhelado y esperado. Se regresaba a casa de los estudios o el trabajo con prisas, llavero en mano; ya antes de abrir el buzón se escudriñaba por las rendijas para intentar descubrir el objeto del deseo oculto entre las sombras. Si se piensa bien, era un ejercicio bastante estúpido, porque el tiempo pasado bizqueando deseando poseer la visión a infrarrojos de Superman era tiempo robado a la operación mecánica de abrir el buzoncito de marras. El escribir y recibir cartas de papel tenía una vertiente fetichista que jamás lograrán alcanzar los correos electrónicos y los whatsapps. Acariciar con la punta de los dedos ese objeto que a la vez fue acariciado días antes por el amado, el rasguear del bolígrafo o la pluma sobre el papel mientras se escribe, una banda sonora mucho más armónica que el tic tic tic del teclado, que aún con todo es un ejercicio físico incomparablemente más placentero que la escritura en las odiosas pantallas táctiles.

Pero, una vez aparcada la abuela cebolleta y su versión sofisticada, la “old-fashioned snob”, pensándolo bien, la esencia de las “conversaciones entre ausentes”, como define las cartas Laura Mínguez en su artículo, no ha cambiado.

Lo que sí ha cambiado ha sido el tiempo, la velocidad de reacción. Las relaciones epistolares destinadas a sucumbir tardaban más tiempo en morir por el simple hecho de que pasaban semanas entre una misiva y otra; pero entonces, como ahora, existía la función “Block”. Este ejercicio de memoria asociado a las cartas me ha llevado a recordar algo que hice de adolescente; algo de lo que ahora, con la “inútil sabiduría de la vejez”, como diría Tomasi di Lampedusa, me avergüenzo profundamente. En las revistas semanales para jóvenes, entre un truco sobre cómo ocultar el acné y las diez pistas para saber si tu chico te engaña, había una sección de anuncios para “pen friends”. Un día, no sé por qué, escribí a un chico de Madrid que había puesto en su anuncio que veraneaba donde lo hacía yo. No me acuerdo si fue ese el principal motivo por el que lo hice. Él me dio una buena impresión (imagino que porque escribía bien) y a la segunda carta le mandé una foto mía en el apartamento de verano con mi querido perro Black, el pastor alemán. Obviamente, a vuelta de correo él hizo lo propio, me mandó una foto suya con su perro y… desilusión, horror y pavor. Con el paso de los decenios he olvidado sus rasgos, por lo que no sería capaz de jurar que era realmente tan feo como para provocarme tal espanto, pero recuerdo perfectamente ese chihuaha color marrón diarrea de ojillos saltones. Escogí, obviamente, la manera más vil de hacerle saber la impresión que me causó su foto: se la devolví por correo, sin tan siquiera dos líneas y encima con un sobre en el que escribí su nombre y dirección a máquina. Hace falta ser “stronza”. Si creyese en la ley del péndulo, diría que pagué con creces mi ruindad en forma de plantones recibidos por algún que otro rollito de discoteca en sesión de tarde que se desvanecía en la nada y no se presentaba a la cita del “día después”.

Pero retomemos el discurso, una vez dejado atrás el vergonzoso recuerdo. Sea entonces que ahora, bajo forma de papel o de bit, la “esencia de las conversaciones entre ausentes” sigue siendo la descrita por Laura Mínguez. Por no hablar de los sentimientos, igual de intensos que los plasmados en letras, que aletean alrededor de quienes las escriben y las leen: espera, ansia, dudas. Mis estériles ejercicios de escritura incluyen a menudo una carta, o adopto directamente el estilo epistolar (si una es “old fashioned snob” lo es en todos los ámbitos). Las cartas son un caudal inagotable de sentimientos.